Oggi a lavorare ero in compagnia di una
ragazza indiana, indiana dell’India non dell’America, di Calcutta a voler
essere precisa. Ce la siamo passata bene, almeno mi pare, ho perfino retto
bene al cambio di lingua per tutta la giornata, lei ha chiesto se poteva
tornare anche domani quindi o non sono riuscita a spigarle che cosa faccio o
anche lei se l’è passata abbastanza bene. È stancante parlare in inglese mentre
si lavora, inglese è un’esagerazione, qualcosa che vagamente ricorda l’inglese
è più vicino alla realtà. Mentre tornavo a casa pensavo se si tratta di parlar
di lavoro più o meno mi arrangio, se si deve parlare d’altro, anche la cosa più
semplice si fa difficile e son più le frasi che evito di dire perché mi mancano
vocaboli di quelle che dico. Mi mancano i vocaboli perché non leggo in inglese
qualcosa di differente dagli articoli che mi interessano per lavoro, mi dicevo
mentre tornavo a casa, dovrei provare a leggere qualcosa di diverso. Poi mi son
detta Ma anche no, leggere è un piacere facciamo pure che resto ignorante e mi
godo i libri belli che incontro.
Giuseppe Verdi
7 ore fa
6 commenti:
Anche perché, diciamolo, i traduttori già se la passano male (o almeno l'ici devant) senza che tutti si mettano a leggere i libri nelle versioni originali…
Però...se tradurre corrisponde a capire come si possa pensare altrimenti un concetto, una parola, allora leggere in lingua originale deve corrispondere per forza a ragionare altrimenti...e leggere propri pensieri tradotti in una lingua per cui non erano stati pensati?...deve essere come disfare la propria valigia in mezzo a una strada forestiera, diversa da quella che ha visto la valigia partire...mi sa di interessante..come lo è leggere i tuoi bellissimi pensieri. In certi è come se prendessi un oggetto, o una situazione, e li ponessi davanti a chi legge. Riesci a farli parlare senza intervenire che il minimo indispensabile per appoggiarli su un ideale piano, lucido e pulito, sgombro, su cui si possono osservare e capire. Mi verrebbe da dire che li traduci. Bellissimo leggerli.
È vero. Questo blog è il contrario di tantissimi altri blog, vetrine disperatamente esibizionistiche della nullità dei loro autori e delle loro autrici.
Per questo invita ogni giorno alla lettura: si ha l'impressione che dietro ci sia davvero una vita che vale la pena essere raccontata
Non credo esistano vite che non valga la pena raccontare, considerato che non esistono vite che non valga la pena vivere, malgrado la pena possa essere grande...mi scusi se mi permetto di sottolinearlo...però ha ragione, questo spazio invita a tornare e leggere con attenzione proprio perché si sente che c'è dentro davvero una vita.
@red, Marco: grazie, che dire, mi avete lasciato senza parole, è rimasto un grazie (grande grande) una parola sola che ne raccoglie tante.
Tornando alle traduzioni, e alla fortuna di poter così leggere libri che altrimenti non potremmo leggere, l’immagine della valigia disfatta in una strada foresta è molto bella e interessante. Un po’ però, forse, il disfare la valigia altrui a casa propria lo si fa sempre quando si legge. Così come lo si fa quando si ascolta una canzone. Non so, forse è capitato anche a voi, ma a me è successo di parlare di un libro con qualcun altro e avere l’impressione di aver letto due libri differenti. Non nel senso che a uno è piaciuto e all’altro no, nel senso che si son notate cose differenti, si son provate emozioni differenti, il non detto del libro è stato riempito in maniera differente. Mi sto incartando, mi sa che non si capisce bene quel che vorrei dire.
È chiarissimo, invece, ed è così sempre, succede sempre se si legge davvero. Leggere un libro altrui lo vedo come...appropriarsi della valigia di qualcuno e farne il proprio bagaglio a mano per un viaggio improvviso. Vi si trovano abiti, scarpe, mille altre cose, ma soprattutto ai primi, agli abiti e alle scarpe ci si deve adattare da subito. Insomma ci si veste di abiti non propri e quando se ne parla, quando lo si racconta a qualcuno che ha viaggiato con lo stesso identico bagaglio, inevitabilmente si scopre di aver tirato su orli che per l'altro non sono stati necessari, o di aver sciolto nodi che l'altro ha invece preferito o dovuto annodare. Credo che il lettore sia un viaggiatore sprovvisto di bagaglio e lo scrittore sia colui che per inclinazione, per passione, semina valigie piene del necessario in giro per il mondo. La traduzione invece, per me, è geografia e come tale andrebbe insegnata nelle scuole. Ognuno dovrebbe essere in grado di accedere da sé alla letteraratura di un Paese straniero. Ognuno dovrebbe essere messo in condizione di pensare in almeno due lingue. Questo non escluderebbe la preziosa figura del traduttore nella nostra società, ma permetterebbe alle singole persone di acquisire una nuova sensibilità, una specie di manualità applicata alle parole. Mi affascina molto la figura del traduttore e mi intenerisce la sofferenza che deve provare nel tradurre emozioni, visioni, attento sempre a non lasciare impronte, a non sovrapporsi, per non sporcare il testo, la sua aderenza all'originale. Non è una figura di contorno, il traduttore, e non perché contribuisce alla divulgazione...quello è solo effetto del considerare ancora le lingue come creature sedentarie entro confini geografici. No...il traduttore è qualcuno che sa leggere nelle parole il proprio confine. Le possiede così profondamente, così certamente da poterle ribaltare, da poterle disconoscere per renderle universali e simili ad altre del tutto diverse. Il traduttore fa questo con estremo talento, ma chiunque può farlo, con altro intento: prendi una frase in cui ti riconosci, in lingua italiana, e poi scegli una lingua in cui tradurla, fra quelle più familiari al tuo orecchio. Vedrai una specie di miracolo...vedrai te stessa arrivare da lontano. Il talento del traduttore sta, secondo me, nell'essere già là, con la mente, con la propria sensibilità, là dove io, dilettante, arriverei se traducessi per me stessa. È un viaggiatore privilegiato, il traduttore, ha una dimensione in più a disposizione, in cui muoversi e una solitudine in più cui badare, credo. È una figura struggente.
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